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Giorgia Würth affronta il tema nel suo romanzo L’accarezzatrice

In Italia la sessualità è ancora circondata da molti tabù e da informazioni ed educazione scorrette. Se alla sfera sessuale accostiamo il mondo della disabilità, questi tabù diventano ostacoli insormontabili, di gran lunga peggiori anche rispetto alle barriere architettoniche che impediscono, a uomini e donne diversamente abili, di potersi muovere in piena libertà e autonomia. Iniziare a parlare di sesso e disabilità può essere utile per scalfire l’alto muro di pregiudizi, alimentati da ipocrisie e falsi pudori. Questo è ciò che ha pensato la scrittrice e attrice Giorgia Würth e l’ha portata a scrivere un romanzo molto coraggioso e dal titolo particolarmente poetico ed evocativo: L’accarezzatrice.

Questo termine ha l’obiettivo di richiamare la figura dell’assistente sessuale, una professione che esiste già da decenni in Stati come Germania, Danimarca, Svizzera e Olanda, ma che, nel nostro Paese, desta ancora perplessità, se non addirittura scandalo e disapprovazione.

Parlare di assistenza sessuale ai disabili significa fornire a questi soggetti il supporto di persone dotate di formazione adeguata, che garantiscano loro la possibilità di scoprire ed esplorare il proprio corpo, con atti di intimità di vario genere o attraverso la masturbazione.

L’autrice ci parla di questo delicato argomento attraverso la storia di Gioia, una giovane infermiera che perde il suo posto di lavoro a causa della crisi e deve, così, reinventare il proprio futuro. Un giorno decide di rispondere a un annuncio nel quale si richiede “un’infermiera con spiccata sensibilità” a Bellinzona ed è così che entra in contatto con la disabilità, un universo su cui mai aveva soffermato la propria attenzione. Ne scopre i bisogni più intimi, necessità che equivalgono a quelle di qualunque persona sana.

Infatti, anche se spesso lo si dimentica e come ci ricorda la protagonista:

“I disabili non sono asessuati. Non so perché lo pensavo prima… un pregiudizio… O forse, semplicemente, non ci pensavo affatto. E non so cosa è peggio”.

Il romanzo riesce a descrivere con estrema naturalezza e con grande realismo un contesto medico. Nella stesura, infatti, la Würth si è avvalsa della collaborazione di un assistente sessuale svizzero, Lorenzo Fumagalli, e del supporto di Max Ulivieri, ideatore del sito loveability.it, spazio web dedicato alla sessualità e all’affettività dei disabili. Sono molte le storie che affiorano, ognuna tragicamente reale e che ci invita a riflettere su un aspetto che, molto spesso, viene trascurato quando ci si sofferma sulla disabilità.

Condizionati da una logica paternalistica e oppressi da moralismi di varia natura, ci approcciamo spesso ai soggetti portatori di handicap con un atteggiamento indifferente o influenzato dal vedere in loro soltanto dei corpi malati da curare. Leggendo le pagine de “L’accarezzatrice”, invece, scopriamo che il loro desiderio di amore e di sessualità non è nulla di più normale e ordinario.

Conosciamo, così, la vita di Diana, madre di un ragazzo spastico, che rivela a Gioia di essere stata costretta a masturbare il proprio figlio, di fronte all’atteggiamento del ragazzo che si era fatto sempre più aggressivo, esibizionista e masochista. In realtà, tali comportamenti nascondevano semplicemente una richiesta di aiuto a cui la donna non ha potuto sottrarsi, anche se è divorata da un sentimento di vergogna per ciò che ha dovuto fare. La protagonista, invece, la esorta ad essere fiera del coraggio che ha mostrato, in assenza di uno stato che si faccia carico di situazioni difficili come questa.

La vera ingiustizia “non solo privata, ma anche sociale” è che le famiglie vengano lasciate sole a gestire, tra le altre criticità, un aspetto niente affatto secondario nella vita di un soggetto disabile, proprio la sessualità.

Si potrebbe negare che questo sia il gesto d’amore “più grande ed estremo per una madre”? Nel romanzo ci viene trasmessa, tra le altre, anche la storia di Rosaria e Salvatore, una coppia in cui entrambi sono affetti da SLA. In questo caso sarà la donna a chiamare l’assistente sessuale per il marito, nel momento in cui si rende conto della sua incapacità di riuscire a dare piacere al proprio uomo. E anche di fronte a tale situazione gli interrogativi si susseguono, in modo crudo e diretto: quella di Rosaria è una forma di perversione estrema o un semplice gesto d’amore, per restituire gioia e dignità al proprio partner? Ed è possibile, fino a questo punto, separare il sesso dall’amore?

È un percorso di crescita e di riflessione quello che intraprendiamo insieme a Gioia, portiamo alla luce vicende che, altrimenti, rimarrebbero nell’oblio, coperte dall’indifferenza e dai pregiudizi. La protagonista, abbracciando la professione di assistente sessuale, cambierà per sempre la propria vita e troverà un arricchimento personale che non credeva possibile.

Ma cosa può spingere una persona ad intraprendere un mestiere così delicato? Le risposte arrivano da una donna che è già assistente sessuale, la quale dice a Gioia che:

“Suonare un corpo sano è bello, elegante. Spesso facile. Ma vuoi mettere la soddisfazione e la felicità che può darti far vibrare di musica un corpo rotto? Ecco perché ho deciso di diventare assistente sessuale. Volevo dar luce a qualcosa di bello suonando uno strumento che molti considerano brutto, sterile”.

Far vibrare di musica un corpo rotto” significa restituire a uomini e donne che, normalmente, sperimentano il dolore e il disagio corporei la gioia di vivere, la sensibilità, il diritto ad essere prima di tutto persone. Il punto da cui partire e da tenere fermo è che la sessualità va considerata e affrontata come un aspetto della vita umana che contribuisce alla maturazione e alla consapevolezza di se stessi.

Come riconosciuto, infatti, anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 561 del 18 dicembre 1987, il diritto di disporre liberamente della propria sessualità rientra tra i diritti inviolabili dell’uomo, tutelati dall’art. 2 Cost. e spettanti a tutti, a prescindere dalle condizioni fisiche e di salute. La possibilità di sperimentare il sesso si traduce, inoltre, in autodeterminazione e diviene anche fonte di autostima.

Quando, invece, la sessualità è oggetto di repressione, soprattutto in soggetti con handicap, possono generarsi effetti psicologici distruttivi, che compromettono, di conseguenza, il benessere psicofisico del diversamente abile, con forte pregiudizio per il fondamentale diritto alla salute. Ecco perché, il mondo della disabilità, sia essa fisica o psichica, dovrebbe avere la possibilità di ricorrere all’assistenza sessuale, al fine di godere del supporto di soggetti qualificati che accompagnino alla scoperta di una sfera solo apparentemente inaccessibile, coinvolgendo in un percorso di confronto non solo il diretto interessato, ma anche la sua famiglia.

Come emerge dal libro, però, e più in generale dal dibattito sul tema nella società civile, molte sono le obiezioni con cui si accoglie l’assistenza sessuale nel nostro Paese.

Occorre, pertanto, evidenziare al riguardo come l’operatore sessuale non sia affatto una prostituta, come si potrebbe pensare in base ad una visione superficiale: mentre, infatti, quest’ultima ha tendenzialmente il compito di soddisfare nel minor tempo possibile il desiderio carnale del cliente, un assistente sessuale, uomo o donna, non è altro che un professionista dotato di adeguata formazione di tipo psicologico, sessuologico e medico che instaura con il soggetto disabile una relazione attraverso la quale si dovrebbe giungere ad una maggiore consapevolezza del proprio corpo e dei modi attraverso cui dare e ricevere piacere.

Dall’altra parte della barricata, invece, chi si oppone al riconoscimento dell’assistenza sessuale per i diversamente abili si interroga, sulla base della complessità delle sfere coinvolte, se sia sufficiente che una sola figura, per quanto qualificata, si faccia carico, quasi in via esclusiva, di aspetti così importanti per il benessere di ogni individuo. Inoltre, vengono avanzati anche molti dubbi sulla reale possibilità di “sanitarizzare” l’amore e la sessualità: si teme, infatti, che i soggetti con handicap possano finire per innamorarsi di chi li assiste, con il rischio di una conseguente incapacità di gestire e metabolizzare un abbandono a volte inevitabile. Probabilmente, però, dietro tali obiezioni si nascondono solo stereotipi e scarsa flessibilità mentale.

Se ci pensiamo bene, infatti, e come emerge dalle pagine de “L’accarezzatrice”:

“Nessuno si scandalizza se qualcuno legge per i ciechi. Perché allora indignarsi se qualcuno si occupa di far sperimentare la tenerezza a una donna o un uomo intrappolati nel proprio stesso corpo?”.

Può essere opportuno precisare che, qualora si dovesse arrivare ad un riconoscimento legislativo della figura dell’assistente sessuale, occorrerà distinguere le disabilità cognitive gravi da quelle meramente fisiche. Nel primo caso, infatti, sarebbe necessario un complessivo percorso di educazione al sesso e all’affettività che si avvalga anche del supporto delle famiglie. Nella seconda ipotesi, invece, l’intervento potrebbe essere relativamente più semplice e maggiormente mirato al singolo individuo in via esclusiva.

Giungeremo mai, nel nostro Paese, a una formalizzazione legislativa della professione di assistente sessuale? Un primo passo affinché l’assistenza sessuale possa concretizzarsi in una libera scelta e la sessualità sia davvero un diritto per tutti è stato compiuto con la presentazione in Senato del disegno di legge n.1442/2014 “Disposizioni in materia di sessualità assistita per persone con disabilità”. Attraverso tale proposta si chiede al Ministro della Salute di emanare delle linee guida per le Regioni chiamate ad occuparsi della formazione professionale di nuovi operatori che dovranno essere in grado di relazionarsi con la disabilità e avere competenze di tipo psicologico e sessuologico. Al momento, però, il dibattito parlamentare sul tema è fermo.

Nessuno, tuttavia, può mettere in discussione il fatto che la scelta di fare sesso sia una questione di libero arbitrio, di autodeterminazione: se condividiamo questo assunto, la logica conseguenza dovrebbe essere quella di riconoscere che tutti abbiamo diritto ad avere le stesse possibilità di sperimentare la sessualità. Ma, a causa delle numerose e innegabili difficoltà ancora irrisolte che un diversamente abile deve affrontare quotidianamente, il diritto al sesso rischia di diventare una chimera, pura utopia.

Potremmo chiederci: è una battaglia che vale la pena combattere? La risposta è certamente positiva perché, procedendo in tal modo, abbatteremmo odiose barriere culturali e restituiremmo vera autonomia e dignità ad uomini e donne che sono stati pesantemente condizionati dall’handicap. L’assistenza sessuale farebbe crescere l’autostima, spesso compromessa, e aiuterebbe a non sentirsi diversi, a ritrovare il proprio posto nel mondo, attraverso il corpo e i suoi piaceri.

Certamente il riconoscimento legislativo sarebbe fondamentale, ma ancor più forte sarebbe l’accettazione nella realtà quotidiana di una figura che svolgerebbe concretamente un servizio socialmente utile. Per far ciò, liberiamoci da ogni forma di pregiudizio, soprattutto quello in base al quale il diritto al sesso sarebbe appannaggio dei soli soggetti sani e, come Gioia, scopriremo un mondo che merita rispetto e, soprattutto, la giusta e adeguata attenzione.

Il romanzo di Giorgia Würth sul binomio sesso e disabilità ha infranto molti tabù, senza falsi pudori e moralismi, ma con forza e semplicità. Sarebbe compito dello Stato, come riconosce l’art. 3 comma 2 Cost., “rimuovere quegli ostacoli di ordine sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana“. Soltanto così l’uguaglianza sostanziale si realizzerebbe pienamente e smetterebbe di essere lettera morta. Perché è impossibile non condividere che:

“Nonostante tutte le sovrastrutture, le complicazioni, le diversità e le barriere, eroi o no, il sesso è, in fondo, l’unico linguaggio davvero universale”.

Stefania Baudo

Scritto da:

Redazione IV

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