676 apparizioni di Killoffer

“Non ho la coscienza a posto… I piatti sporchi li ho lasciati a Parigi e ho preso al volo un aereo per Montréal.”

Charles Burns l’ha definito: “Un crudo, spettacolare capolavoro sul disprezzo e l’orrore verso se stessi. Perché inventarsi mostri, morti viventi e alieni spaziali quando il vero terrore si annida sotto la tua pelle?”.
Il creatore di Black Hole ha il dono della sintesi: vi potreste tranquillamente fermare qui, chiudere tutto ed essere soddisfatti di quelle due frasi, ma io, qualcosa in più su 676 apparizioni di Killoffer, ve la devo dire.

Partiamo dall’autore: Patrice Killoffer, più noto come Killoffer, è un artista francese, conosciutissimo in patria e sconosciuto in Italia. Ha studiato Arti Applicate a Parigi, dove ha avuto, tra i suoi docenti, il maestro del fumetto Georges Pichard, colui il quale ha raffigurato le farneticazioni della sensualissima Paulette inventata dal geniale Georges Wolinski, negli anni ’70.
A partire dal 1987, collabora con riviste come Pas un seul, Globof, Lynx e Labo, ma la svolta avviene nel 1990: insieme a Jean-Christophe Menu, Lewis Trondheim, David B., Stanislas e Matt Konture, fonda il collettivo francese L’Association, casa editrice indipendente celebre per essere promotrice di un disegno più intimista, legato alla realtà ed esclusivamente in bianco e nero, il cui fine è forzare i limiti del fumetto e mostrarne tutto il potenziale.
Dal 1992, è anche membro del gruppo OuBaPo, lavora per la rivista sperimentale Lapin e disegna regolarmente per i quotidiani Libération e Le Monde.

676 apparizioni di Killoffer è stato pubblicato da L’Association, nel 2002, e bisogna ringraziare la sempre ottima Coconino Press che, nel 2017, lo edita, colmando un vuoto imbarazzante nell’editoria a fumetti italiana.
Il fumetto di Killoffer è un racconto tra il noir, l’horror e l’autopsicanalisi, tanto agghiacciante nella sua esecuzione quanto fumettisticamente ineccepibile, e rappresenta una lettura necessaria, un classico della new wave francese, una parte fondamentale non solo de L’Association, ma del fumetto in generale. Un’opera che l’editore ha portato nel nostro paese nel suo formato originale – un maestoso brossurato di 25 x 37 cm – rimarcando, in questo modo, l’importanza della storia e dell’illustrazione.
Scopriamone di più.

“A mia discolpa devo dire che era una quantità di stoviglie colossale, di quelle che richiedono un’immersione totale, una dedizione certosina assolutamente fuori dalla mia portata: non sono che un fannullone dei peggiori…”

Il protagonista di 676 apparizioni di Killoffer è Killoffer stesso. Il racconto parte da una questione banale e quotidiana, di quelle che possono capitare a chiunque: una montagna di piatti da lavare parcheggiati nel lavello della cucina del suo appartamento parigino.
La fregatura è che Killoffer si ricorda del cumulo di stoviglie dopo aver lasciato Parigi ed essere diretto a Montréal, in Canada, per qualche tempo. Come lo troverà al suo ritorno? Egli stesso afferma che, con ogni probabilità, “non sono più piatti sporchi, è una bomba a orologeria, un’arma batteriologica. Mi aspetto un’esplosione di funghi imponente. Qualcosa di lussureggiante, ricoperto da un manto di vermi”.

Questa consapevole colpevolezza si trasformerà rapidamente nel più brutale degli incubi, conducendolo in un trip che incalza pagina dopo pagina, arrivando addirittura a vedere ovunque suoi doppi. 676 apparizioni di se stesso, per la precisione.
Il racconto a Montréal si distingue, nelle sue battute iniziali, per un’eccedenza di parola, dove i disegni sono totalmente immersi in quello che si potrebbe definire un flusso di coscienza. Seguiamo le azioni di Killoffer, così come i suoi pensieri, in cui si intrecciano riflessioni personali sull’impossibilità di formare una famiglia, l’apatia nei confronti degli eventi, il rapporto malsano con l’altro sesso, il cinismo, a tratti nichilista, e la misantropia generale che, lealmente e senza mezze misure, ci prospetta.

Questi alter ego allucinati e allucinanti lo assediano e non gli consentono di fare nulla, dal mangiare al bere, dal disegnare al dormire, trasformando la sua esistenza in un inferno da cui sembra non avere via d’uscita. Gli altri Killoffer, infatti, non sono semplici copie, ma delle versioni dei peggiori istinti, anche di quelli più celati e perversi. Al contrario del Killoffer convenzionale, questi si prodigano in eccessi ed efferatezze di ogni tipo: si ubriacano, provocano risse nei locali, molestano e violentano le donne incontrate in giro per Montréal, rovinando irrimediabilmente la sua immagine.
Tutto ciò non gli impedisce, comunque, di perder tempo a scambiare sguardi molto insistenti con le ragazze a spasso per Montréal, da buon maniaco (“Mi sento in colpa. In colpa per aver scritto in fronte ciò che senza dubbio sono: un arrapato.”), desiderandole tutte e cercando di farsi desiderare da tutte. Pian piano, il gioco degenera in un’ossessione che non è più solo sessuale, ma un’esplosione di schizofrenia paranoica non esente da forti tratti sadomasochistici.

Il protagonista tenta, per quanto possibile, di gestire un marasma che, man mano, diventa sempre più spaventoso e fuori controllo. A enfatizzare il dramma psicologico è la scomparsa della parola a partire dall’undicesima pagina, da dove tutto diventerà sempre più caotico, ipertrofico ed equivoco, e da dove continuerete voi il viaggio.

“Come se avessi a Parigi qualcosa che cuoce a rilento, in un lavello ingorgato, in attesa del mio ritorno.”

La stoffa di Killoffer come fumettista, specialmente nella composizione della tavola, è esaltata dalle grandi dimensioni delle pagine (25 x 37 cm, dicevamo), in cui la progressiva discesa verso il baratro del degrado cammina parallelamente alla sparizione delle regole formali della narrazione fumettistica.
Non solo i balloon sono assenti e il testo è relegato a una semplice fase introduttiva, ma i margini delle vignette scompaiono e le pagine accolgono sorprendenti layout liberi da qualsiasi tipo di gabbia o ripartizione dello spazio, che costringono il lettore a una navigazione incerta. Tutto ciò serve a creare una destabilizzazione nell’esperienza della lettura che restituisca la deflagrazione dell’Io del protagonista.
In questo senso, 676 apparizioni di Killoffer ricorda la scelta stilistica utilizzata da Gianni De Luca nel suo Amleto che smantella la struttura canonica della tavola, e tra due strutture simili, quella dello spazio e del tempo, crea una simbiosi, un effetto a tratti alienante, ma che rende il lavoro molto più accostabile a un’opera teatrale che a un fumetto (l’”effetto De Luca”, appunto).

In questo nuovo modo di sentire forme e azioni, il bianco e nero, unici colori protagonisti di questa composizione liquida, fluiscono e si compenetrano senza soluzione di continuità, liberi da dialoghi e osservazioni, delineando magnetici quadri macabri composti di puri gesti.

Abbiamo visto che l’aspetto verbale, prepotente nella prima parte del fumetto, scompare improvvisamente e inaspettatamente alla decima pagina. L’interruzione si verifica nel momento in cui le apparizioni si fanno più numerose, la narrazione più cruda e le pulsioni più primordiali. Gli eventi prendono una piega estrema nel momento in cui cessano di essere narrati e vengono esclusivamente mostrati. È come se Killoffer riconoscesse al disegno una maggiore immediatezza e intima verità, certo non a torto!

Interessante è riflettere sull’anno di pubblicazione di 676 apparizioni di Killoffer: siamo nel 2002, ovvero un periodo contrassegnato da un’invasione di autobiografie sul mercato del fumetto, molte delle quali del tutto insulse e inconsistenti. Dunque, il lavoro di Killoffer va necessariamente considerato all’interno di quel contesto editoriale dove il suo è anche un riscontro critico e mirato a quella tendenza specifica.

“Temo molto quel momento e il botto finale con cui finirà questa specie di suspence che sta montando al di là dell’Atlantico, nella quale annego come in un bicchiere d’acqua sporca…”

Siamo di fronte a un’opera di altissimo livello, sia per contenuto che per forma. Un’autobiografia crudele e surreale che, per quanto possa sembrare essere stata realizzata sotto acidi, è di una schizofrenica sincerità unica. È un disvelarsi violento del male sepolto dentro di noi.
Del resto, Killoffer non fa altro che mettere da parte il proprio ego per palesare al mondo la propria condizione di perdente e malato. Egli ammette, senza tanti fronzoli, di essere stato sconfitto dalle ossessioni in cui ognuno si può riconoscere, dall’impotenza del confrontarsi con la quotidianità, reagendo anche in modo sconnesso all’imprevedibilità del caso.

Il nero dell’inchiostro è perfetto sia per il buio della notte che per il sangue, conferendo un gusto squisitamente surrealista, grazie al trittico sesso-violenza-alcool per un risultato più che indigesto, così come questo colore si addice all’itinerario esistenziale che prevede l’alternarsi di attimi di lucidità a solitari vagheggiamenti conditi dal fumo, dal vino e dall’emissione di ogni tipo di liquido corporale.
Un percorso horror fatto con passi pesanti e pensanti, dove ogni azione porta alla putrefazione della mente. Il sesso è sofferto e sofferente, e la faccia di Killoffer diviene sempre più provata fino a uno spiacevole disprezzo di sé.

I doppi di Killoffer non sono altro che un espediente per esplorare tutti gli impulsi umani più scomodi, i desideri taciuti, le voci più profonde. Coprofagia, sodomia, narcisismo, maschilismo, sadomasochismo sono solo alcuni dei peccati che si susseguono nelle pagine di questo volume e che si intrecciano alle pulsioni sessuali che tormentano l’autore.

La voce del protagonista è vicina, per alcuni versi, a quella di Bruno Clément, personaggio dipendente dal sesso de Le particelle elementari di Michel Houellebecq, con cui Killoffer ha in comune l’aria spregiudicata. Volendo individuare, invece, un corrispettivo fumettistico, potremmo accostarla ai lavori di Chester Brown e Joe Matt, anch’essi sfacciati nel manifestare le proprie debolezze, ma anche al Binky Brown meets the Holy Virgin Mary di Justin Green, da cui prende una certa disinvoltura nel descrivere ossessioni, e al 7 Miles a Second di David Wojnarowicz, James Romberger e Marguerite Van Cook, da cui recupera la forza espressionista nel trattare la violenza dei fluidi corporei.

Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, ha pensato a qualcosa di tremendo e inconfessabile, la cui ragione ha saputo sopire, ed è proprio quello il momento in cui questo fumetto viene partorito: ogni istinto, invece di essere soffocato, genera un nostro clone senza freni. Nonostante lo sfoggio impietoso di questa spietatezza, nulla cade nella retorica del giudizio, nemmeno le scene di stupro e orgia sodomita.
676 apparizioni di Killoffer non è altro che un incubo a disegni, una specie di esercizio di stile in cui il protagonista si trova a doversi confrontare con un preciso numero di alter ego, in cui non solo il lettore ma, senza dubbio, anche l’autore si trova ad assistere agli effetti imprevedibili di questo confronto impossibile, dove l’unica soluzione è combattere direttamente ognuno dei lati oscuri.

Ah, io le ho contate: le apparizioni di Killoffer sono davvero 676. Non perdete tempo. O perdetelo senza sentirvi in colpa.

676 apparizioni di Killoffer

Scritto da:

Annamaria Marraffa

Hai presente quelle tipe total black, dai capelli rossi? Immaginami estasiata tra dischi, fumetti, film, serie TV, libri, violoncelli. Tra citazioni e suoni, ti farò compagnia, con una tavola di Magnus e una canzone di Fiumani.